Woyzeck 3, Aberystwyth.
Introduzione
Aberystwyth è una cittadina gallese, adagiata sul mare che guarda l'Irlanda. Di speciale ha che, salendo verso l'entroterra ti trovi in una posizione da cui vedi lo skyline della città diventare un "sealine". Le torrette e i tettucci grigi non ritagliano più la loro linea nel cielo, ma direttamente sul mare. È proprio in quella posizione, a metà salita, che sorge l'università, dove Firenza Guidi e il gruppo Elan sono sbarcati sulle ali del World Wide Woyzeck. Questa volta il partner da affiancare era il National Youth Theatre of Wales, con i suoi ragazzi non ancora ventunenni.
Sono arrivato nella hall dell'Art Centre, seguendo gli occhioni di Lisa sui poster che tappezzavano la città, con un incolpevole ritardo di due ore sull'inizio della prima. Ma ho avuto davanti a me, nei tre giorni seguenti, altre sei possibilità da sfruttare per vedere questo nuovo Woyzeck. Ne ho colte ben quattro, un po' per zelante spirito del dovere, un po' perché, visto uno show, come potevi restare fuori dagli altri, sapendo di perdersi quel ben di Dio?
In effetti, potendo fare ciò che generalmente il pubblico non fa, cioè vedere molte repliche di uno spettacolo di Firenza, ho realizzato che veramente sul biglietto di ogni spettacolo dovrebbe essere scritto il consiglio di partecipare più volte. Ci sono legami, echi, rimandi, che non cogli in un solo show. Si vede che Firenza non lo vuole. Vuole che tu sia attivo, vada a cercarti i dettagli e ti lasci trasportare dal flusso degli eventi, ma ci deve essere sempre qualcosa da scoprire, qualcosa che impedisca una definitiva soddisfazione della curiosità. È la curiosità l'elemento chiave, quello che guida Firenza nella sua ricerca e che, di conseguenza, tu spettatore non riesci a controllare, quando ti immergi in quel mondo. Se riesci a ragionare durante uno spettacolo riesci a farlo solo per domande.
Ed è questo che ho fatto io, almeno all'inizio. Poi con la seconda, terza, quarta visione, qualche risposta ha cominciato ad emergere. Niente in confronto al numero di dubbi ancora insoluti, ma forse abbastanza per scrivere queste righe di recensione. Una recensione che è una via di mezzo fra un nostalgico racconto di uno spettacolo che non rivedrò più e un commento più esteso. Negli attimi emozionanti dello spettacolo provi sensazioni che continui a processare in testa durante le scene successive, durante l'applauso, durante la cena. Quello che resta di ben chiaro, lì sul momento, è solo la gioia di esserci e la paura di perdere tutto quello per sempre. È da lì che parte ogni volontà di documentazione, da lì che nasce il tiepido crogiolo delle idee. Nella testa ciò che hai visto davvero e ciò che hai immaginato di vedere si fondono. L'esperienza e la riflessione non sono più due entità distinte. Hai solo un senso generale.
Quello che segue è proprio la traduzione in lettere di questo senso generale.
Lo show
Per prima cosa introducono te e gli altri ottanta spettatori in un salone. Proprio così, senza spiegazione. In un quadrato di luce ci sono due personaggi che si muovono in sequenza sull'immancabile sedia da barbiere. Sembrano due Woyzeck. Si muovono lenti, con poco vigore, su una musica posata, quasi da mondo subacqueo. Il pubblico li guarda un po' incredulo. È strano come, entrando in una stanza tutta bianca, dove si sta svolgendo un'azione così semplice, ti venga da pensare che il focus deve essere per forza quello. Non fai caso a quanto è grande la stanza, a come sono fatte le pareti, a come si possono trasformare. Prendi semplicemente per buone dimensioni e caratteristiche, come se fossero immutabili. Conoscendo Firenza (e Alli) ti viene da pensare che quello non può essere il teatro dell'intero show, che magari è un'anticamera da cui passare semplicemente. Lo spazio resta, per ora, un elemento secondario.
Dietro le tue spalle, su un lato lungo giocano una ragazzina e uno strano tipo magrissimo, in mutande. Sono dentro una specie di corridoio con le sponde. Passano attraverso il pubblico, tenendosi per mano, una donnona e una nana, con due valige e qualche battuta da viaggiatrici. Poi Lisa, vestita da Marie, sparisce fra i teli del muro. È tutto così calmo e semplice che ti viene da preoccuparti, non metti insieme i pezzi. È un'atmosfera d'attesa che ancora deve evolvere, sono frammenti di un Woyzeck ancora in potenza. Il vero protagonista deve ancora entrare in scena. E il vero protagonista è lo spazio.
Proprio mentre cominciavi a cercare di spiegare, ad essere perplesso, a chiederti cosa potrà mai succedere dentro uno stanzone bianco venti per dieci, ecco che lo spettacolo sembra leggerti nel pensiero, quasi punirti per aver cominciato a diffidare.
Nel lato lungo della stanza, davanti a te, a tre metri dal suolo, si illumina un rettangolo. Sulla parete che tu avevi semplicemente e superficialmente giudicato un telo bianco, appaiono le ombre di tre personaggi, proiettate da dietro. Uno è Lisa-Marie, il secondo è il suo bambino che piange. Del terzo si vedono solo un paio di gambe, femminili, che muovono la culla. Di chi siano non si saprà mai, neanche dopo aver visto lo spettacolo quattro volte. Che ci facciano nella scena, in concreto, non mi è chiaro, sono una specie di pezzo di arredamento umano. So solo che appena le ho viste mi si è aperto il cuore e ho dovuto grattarmi la testa per l'imbarazzo. Come ho potuto sospettare che Firenza non mi sorprendesse?
Ma è solo l'inizio. Perché dietro a ciò che vedi si svela presto un intero modo, un intera rassegna di normalità in attesa di un dramma. Tutto intorno a noi, su tre lati della sala, su tre piani di altezza, si illuminano stanze, spazi, mondi. Non fai in tempo a guardarne uno che ne appaiono degli altri, e altri ancora. La gente, in controluce, si sveglia, si veste, si prepara a una giornata normale, a una vita normale. E tu capisci che questa normalità è precaria proprio perché è troppo calma, che qualcosa cova sotto alla superficie del quotidiano, proprio come covava dietro a quegli spogli teli bianchi. Appaiono profili di uomini, di donne, di cose. Ci sono tutine da bambino, grucce, pentole. È un mondo verticale in bianco e nero, ma non è troppo diverso dalla catacomba di Indianapolis. Questo potrebbe essere un qualsiasi cortile d'Europa, quello un mercato americano. Ma la sostanza è la stessa. Solo tre piccoli tocchi di rosso filtrano fra le pareti, tre panni che sembrano essere sfuggiti al controllo delle macchine che li stanno cucendo. E mentre alzi lo sguardo ti sembra di alzare tutto il corpo, duri fatica a non farti portare a mezz'aria da quello che si vede e dalla musica drammatica che cresce di volume.
Quando Woyzeck entra nella scena e comincia a delirare sulle strane cose che succedono di nuovo, lo studio dei personaggi diventa uno scavo profondo di ogni loro espressione. Il mondo pubblico sembra riaddormentarsi, si torna a una sfera privata, privatissima, forse la più intima dell'intero ciclo dei Woyzeck. Resta solo l'ombra della stanza di Marie e, sulle pareti laterali, appaiono i primissimi piani dei personaggi, proiettati a colori in diretta, con dimensioni gigantesche. Della pelle di Lisa si vede ogni singola sfumatura, ogni impercettibile movimento. Le frasi che lui le mormora sul collo ti entrano dentro prima dagli occhi che dalle orecchie. Quello che dirà alla sua Marie lo intuisci già da come vibrano le sue labbra. L'audio è solo un aiuto.
Dalla faccia di Lisa, sul muro, spunta una testa di uomo e poi la sua voce. "What would you do with your fatherless child?", canta. La tensione è creata, la tragedia può avere inizio e dipanarsi. E infatti comincia.
Arrivano I drum majors, sorprendono il pubblico alle spalle, suonano un ritmo che seduce.
È l'inizio del dramma collettivo, che esce dal singolo personaggio e si estende alla comunità. Una comunità che celebra i suoi riti di società, che festeggia, che non si rende conto del dramma che cova, salvo poi puntare l'indice al momento giusto. Ma intanto c'è la parata, le donne si emozionano, urlano, litigano da una parte all'altra della stanza, sopra il pubblico, in mezzo al pubblico. Passano delle ragazzine imparruccate, su quel corridoio alle tue spalle, che si è rivelato essere un nastro trasportatore. Poi comincia la sfida, si scatena una rissa furiosa, regna un senso di degenero e, in qualche modo, di promiscuità. Tu resti spaesato, divertito, ti scopri coinvolto. Quando finalmente le contendenti sembrano calmarsi e tornare al lavoro, riesci addirittura a chiudere la bocca. È la prima volta da quando tutto questo è cominciato.
E riesci anche a cominciare a pensare. Nella forma interrogativa, ma pensi. Che differenza c'è fra me e i performers? Cosa ci separa? Condividiamo lo stesso spazio e lo stesso tempo, siamo testimoni degli stessi fatti, incitiamo le stesse persone, ne ridiamo come loro e insieme a loro. Ma allora cosa c'è di diverso? Non sto forse indossando anch'io il mio costume?
E come per rispondere a queste domande, ecco che piano piano, con delicatezza, comincia una serie di eventi talmente dolci che ognuno di loro, da solo, sarebbe capace di commuoverti. Ma messi anche tutti insieme sono una bomba.
La musica di Amelie riempie l'aria di sé, la ovatta. Palloncini trasparenti con dentro tanti cuoricini rossi scendono dalle pareti con lentezza innaturale, senza gravità, per poi fermarsi a mezz'aria, sulle teste della gente che non sa più dove guardare. È cominciata la fiera. Passano i performers con gli oggetti più strani, li mostrano, li vendono, sussurrano segreti agli spettatori e poi ammiccano fra di loro. Non c'è più distanza fra te e loro, hanno mangiato tutto lo spazio che vi separava. Non c'è più un luogo immaginario per andarsi incontro, vi siete già incontrati. Firenza ti ha portato dove finisce la comunicazione e comincia la comunione. Una signora con gli occhiali scuri, traballante d'alcool, viene a darti un palloncino, un tamburo passa di mano in mano sopra la tua testa. Mentre Max ti sussurra che può offrirti una scimmia spaziale, tu, furtivo quanto lui, cerchi gli occhi dell'amico per indicargli i vestitini da neonato che scorrono sul soffitto, ad un'altezza siderale. Quando li trovi gli vedi sul viso un sorriso ebete che, adesso che ci pensi, probabilmente hai anche te, ma non ti vergogni per niente. Sei un bambino. Sulle pareti laterali passa un video di una dolcezza contagiosa, dove girano ad intermittenza pupazzini, gattini, scene interrotte al ritmo della fiera. Sono giostre surreali, dove non si può salire, ma che tutti guardano affascinati. Nessuno, sul momento, saprebbe dire quale sia la differenza fra quella e un fiera reale. Lì si compra, si vende, si ride, ci si sposa, si osannano le qualità dell'Astronomical Horse, si suona il sax.
Ed è proprio per questo che, in mezzo a tutto questo trambusto, devi dare una bella scossa alla volontà per accorgerti che qualcosa di importante e drammatico sta succedendo. Ormai tu sei fra la gente comune. Ma arriva una prova che ti pone, di nuovo, delle domande. Sono forse diverso dal popolo ostile e inconsapevole? Saprei fare qualcosa di diverso io, per alleviare il senso di smarrimento e rifiuto che attanaglia Woyzeck? O sono solo una parte normale e becera di un popolo normale e becero, allettato dalle dolcezze della festa ed incapace di guardare più in la del suo Ego?
Marie conosce il Tamburmaggiore, ci parla, lo seduce, prima di allontanarlo. E tu quasi non ti accorgi della tragedia di Woyzeck, ci metti un po' a capire che è lui quel fantasma agitato che si aggira provando ad urlare "Stop the music", con una voce che non riesce ad uscire. Ti dicono che nella prima dello spettacolo, mercoledì sera, la voce sia anche uscita. Forte, disperata, tirava fuori i brividi dalla pelle. Ma è possente anche così. È più sofferta.
Sarà solo il capitano, con la sua autorità e sensualità, a calmare in parte Woyzeck. Firenza ripropone questa versione già sperimentata a Fucecchio: l'ufficiale è una donna in carne, carismatica, che seduce con la sua scollatura e provoca con la sua voce autorevole. Adagiata come una maitresse sulla grande sedia da barbiere, coccola e consola Woyzeck, proprio mentre lo stimola a reagire. È una scena che riesce ad essere sexy e drammatica allo tesso tempo. "L'eternità è solo un momento passeggero, Woyzeck", e intanto una mano scivola su, lungo la gamba di lui. È, in fondo, un richiamo al principio di autorità, il faro che ha guidato l'umanità per secoli innumerevoli e su cui ancora ci si interroga. Chi è il debole? Deve sempre e comunque sottomettersi? E quando la superiorità è benevola o addirittura, in parte, sedotta? Cos'è che rende un uomo inferiore ad un altro? Cos'è il carisma? I quesiti sono antichi, atavici, ma sono posti con una delicatezza che mette in imbarazzo.
Di completamente originale c'è anche la posizione della scena nel tessuto narrativo, in un momento in cui Woyzeck ha più bisogno di essere consolato che stimolato. Ma in generale è tutto l'ordine di presentazione delle scene del W3 a rivelare un deciso passo in avanti di Firenza. Indianapolis aveva visto un Woyzeck riflessivo, un'introspezione cerebrale e complessa del personaggio. Del Woyzeck era stata trovata la temperatura, l'atmosfera. I personaggi erano stati scavati molto nel loro ego, ma non nel loro complesso di rapporti sociali. Era un fatto di sitospecificità, un accordo tacito con il mondo della catacomba, un sottomettersi, consapevole, all'intimità dell'ambiente. Già a Fucecchio la narrativa aveva recuperato terreno sullo spazio dedicato all'introspezione, alla poetica pura. Era il setting a chiederlo. Il W2 è stato un pezzo di cronaca offerta al pubblico, è stato il terreno più ostile per il personaggio Woyzeck, esposto nudo e crudo alle ire della gente, ai balconi delle case, al caldo mediterraneo. Il plot andava molto più di pari passo con una sequenza cronologica, se di cronologia si può parlare nei frammenti lasciati da Büchner. La riflessione rimaneva invece impacchettata in quelle scatole trasparenti. Le parole dei personaggi non uscivano dalle loro bocche, stavano nell'aria in un modo più oggettivo. Anche lì lo spazio e la tecnologia a disposizione richiedevano questo. Ma c'è dell'altro. C'è una maturazione di Firenza in una direzione di completezza, di consapevolezza di ogni aspetto dell'opera, che va oltre la sua resa scenica. E questa maturazione culmina qui, ad Aberystwyth. Con le risorse che il tempo, i mezzi, il gruppo e l'esperienza hanno messo a sua disposizione, ha fatto di questo W3 un'opera eccezionale. La voglia di scavare dentro persone e personaggi, di interrogarsi sugli abissi che stanno dentro ogni individuo è una costante del lavoro di Firenza Guidi. Ed in particolare figure come quella emarginata e fragile di Franz Woyzeck, quella disperata e in balia degli eventi di Marie, quella sadica e pseudo scientifica del dottore hanno offerto un campo d'indagine denso di spunti. Prima di vederli come una società, Firenza si è addentrata nelle loro singole psicologie, nei loro io. È così che procede anche un laboratorio con i performer. Il montaggio di ogni scena e delle scene fra loro viene alla fine. Prima si lavora sul sé, sulla propriocezione di ognuno, sulla creazione. Poi si passa ad un livello comunicativo. Come stava scritto sul poster di W2, prima di dipingere un assassino bisogna avere un uomo. Si comincia dalla materia nuda. La completezza è l'ultimo stadio a cui si approda, dopo un lungo processo.
E Firenza ha percorso questa strada in ogni singolo workshop, con ogni singolo gruppo, ma ha anche progredito, dentro di sé, durante tutta la stagione, in un confronto tutto personale fra lei e ciò che Büchner aveva lasciato.
Ora, qui, di fronte al dipanarsi di questo W3, ti sale un'incomunicabile senso di gioia. Qua c'è tutto. Tutto dal punto di vista letterario, tutto dal punto di vista spettacolare, tutto dal punto di vista comunicativo. E c'è anche la solita, grande, passione. Il ritmo delle immagini e delle scene è perfetto, sempre sorprendente, le suggestioni dei suoni e dei colori quelle solite, le musiche impareggiabili. Anche la dimestichezza con il mezzo cinematografico aumenta a vista d'occhio. E alla base, ovviamente, ci sono performers veri, che perdono la voce davvero perché la frase che gridano dà loro una sofferenza reale. C'è una Marie che quando realizza di aver perso il suo Franz piange lacrime luccicanti. E il tutto avviene a pochi centimetri da noi, intorno alla gente attonita. Ma la maturità non si vede da questo. Questo c'è sempre stato, fa parte del repertorio di Firenza. Questo è Firenza. Eppure questa volta si va oltre il solo creare, si sfonda il muro della comunicabilità. C'è il piacere di coinvolgere il cuore e la testa del pubblico, come non si era mai visto.
Le scene hanno più testo, sono disposte in un ordine che trova una logica più intuibile. Lo show si fa più "user friendly", o almeno offre un altro livello di interpretazione di base. Ora di facilmente comprensibile, non c'è più solo la straordinaria bellezza estetica, la multisensorialità degli stimoli, la profondità dei personaggi. C'è anche una storia ricostruibile in modo cronologico, vicina ai livelli superficiali della significazione, non più soltanto alle strutture più profonde.
La stanza diventa il teatro di una narrazione fatta di echi. I fatti si susseguono nel tempo, ma ognuno di essi rimbalza nello spazio di parete in parete. I dettagli da notare sembrano infiniti. E dietro ad ognuno di essi sta una logica geniale. Ti viene da sentirti piccolo piccolo.
La scena degli orecchini si arrampica nello spazio, e poi torna giù. Sono tre le coppie che si confrontano, non tutte fatte da un Woyzeck e da una Marie. Non tutti litigano, piangono, maturano un crimine. La società e la mente non sono così semplici. L'idiota e la ragazza, sul nastro trasportatore, ci ridono semplicemente su.
Proprio questa figura dell'idiota, marginale nel testo di Büchner, assume qui una sua dignità. Anch'essa echeggia nella stanza, è impersonata da tre tipi strani con giacca militare e kilt. Ed almeno uno di loro ricorre sempre nelle scene cruciali. Prima degli orecchini, era uno di loro che apriva il fair ground ed era di nuovo uno di loro che raccontava una filastrocca senza capo né coda, quando una voce gallese leggeva dalla Bibbia un passo sull'adulterio. Gli idioti sono presenti. Lo sono sempre. La pazzia ricorre, non è marginale. Non lo è nella vita, ma lo è ancora meno nella storia dell'umanità.
E anche la storia del W3 continua a dipanarsi con i suoi ritmi sempre variati, senza cedere troppo all'utopia della razionalità. La logica lo conduce, ma non è una camicia di forza.
Woyzeck è turbato, non dorme o, se dorme, ha incubi tremendi. Si agita terribilmente sulla poltrona del barbiere, che gira e gira. Scorrono immagini a colori, si sente un sound montage che accelera e rallenta in una spirale angosciante. Tutti i personaggi entrano in scena nella loro versione più degradata, processata dalla mente assopita del protagonista. Attraversano la stanza, si mischiano, si agitano in gesti e pose talmente insensate da inquietare anche te spettatore. Marie sfiora la poltrona, sussurra qualcosa all'orecchio, prova invano a calmare il sonno del suo Franz. Ma è anche lei a far parte del caos, a comporre l'enigma di cui lui cerca un'inesistente soluzione. È con l'incubo che si ripiomba nell'atmosfera della catacomba, nel quadro di Bosch dove Firenza aveva condotto il pubblico americano. Le due eleganti signore con il cappotto color cammello scorrono sul nastro trasportatore, occhiali da sole neri e fascetta bianca intorno alla testa. Che vuol dire? Chi sono? Hanno un'autorità su Woyzeck? E su di me che guardo? Più ti viene voglia di capire, meno trovi le risposte. Frugare nel proprio passato e nella propria coscienza non serve, non è mai abbastanza. Eppure continui a farlo all'infinito, in cerca di spiegazioni, perché l'uomo è fatto così. È un'animale razionale, diventa pazzo quando non capisce quello che ha intorno. Forse è stupido lui, o forse tutto il resto non ha senso. E in questo caso un coltello può essere una via di fuga.
Sì, quello che sogna Woyzeck ha proprio a che fare con un pugnale. È questo che chiede ad Andres, la mattina dopo. Il delirio omicida è cominciato. L'eco spaziale che era già comparso con la scena degli orecchini ritorna in tutta la sua suggestione negli altri, drammatici momenti della fase finale. Due Woyzeck chiedono a Marie come fa il peccato mortale ad essere così bello, tre comprano il coltello dalla donna in rosso (evoluzione coerente di quella di Indianapolis), ancora tre soccombono alla prepotenza da taverna del Tamburmaggiore. Lo spazio vive tutto, costruisce una progressione non solo temporale verso la tragedia. È un Woyzeck che fa l'eco a se stesso, perché diventa sempre più solo.
Tornano protagonisti i balconi illuminati in controluce, le fessure nelle pareti, i tunnel laterali che si aprono a sorpresa. Spuntano colonne di soldati in marcia e coppie impettite, a ballare musiche di una passionalità che può apparire anche beffarda. Il tango dei Lounge Lizards e Take a walk on the wild side, di Lou Reed, sembrano tramare contro Woyzeck, perché formano una socialità da cui lui rimane sistematicamente escluso. Il diavolo, si sa, prende alcuni e lascia andare altri.
E il diavolo passa sotto forma di Ken che suona il violino. Ken, mentre suona, è un folletto talmente ingenuo da apparire maligno, ha quel sarcasmo che assumono tutte le cose belle, quando noi ne siamo esclusi. Non sapresti dire quanto tempo ci mette ad attraversare la sala, perso come sei in quell'assolo che ti fa vibrare ogni membrana del corpo insieme a quella dell'orecchio. Ora come ora potrebbe cavarti un occhio con l'archetto che non te ne accorgeresti. Poi, quando arriva in fondo alla stanza, semplicemente, smette di suonare, guarda il pubblico con il suo risolino e torna ad essere quel cartone animato che è sempre. Ma il sorriso è solo una parentesi.
Ormai l'omicidio è maturo. Tutto spinge in quella direzione. Parla di morte la fiaba che una signora racconta, mentre passa tra il pubblico con la sua carrozzina. Dentro porta un arsenale, invece che un bambino. Ma parlano di morte anche le mani insanguinate di Woyzeck, che nessuno ha voluto lavare, e le voci di donna che sussurrano: "stab". C'è tensione nell'aria.
E infatti arrivano i Woyzeck e le Marie. "It's time to go". "Where?". "I don't know". Già, dove si va? Dove si va quando non c'è più speranza? Quando il luogo più doloroso non si può lasciare alle spalle perché sta proprio dentro il nostro intimo, cosa si fa? La voce di Franz da vaga si fa minacciosa, quella di Marie da interrogativa atterrita. Finché, alla fine, arriva il colpo. E poi un altro e un altro ancora. Ci sono tre coppie intorno e sopra di te, tre Woyzeck e tre Marie con la loro sequenza di crimine e morte. Bisogna venire almeno a tre spettacoli per vederle tutte, queste uccisioni, queste lotte impari fra la passione e la pazzia. A scontrarsi non sono solo due persone, è molto di più. Sono anche l'amore e l'odio, la presenza e l'assenza, il prima e il dopo, la vita e la morte. L'omicidio è il punto di non ritorno, il punto di confine fra il massimo del pericolo e la sua fine totale. Ormai non ci sono più domande da porsi, decisioni da prendere. È il momento solo di commemorare.
Lisa, colpita, giace sul nastro trasportatore. Sulle pareti scorrono immagini di lei immersa in pochi centimetri d'acqua, quasi sospesa, come se la morte l'avesse resa finalmente leggera e galleggiante. Sono attimi di una intensità commossa, si vedono particolari ingranditi dove a vibrare è soltanto il riflesso dell'acqua. David Surman e Firenza ci portano davvero dentro a quella emozione con degli zoom mozzafiato. È il mezzo che lo consente, ma certo non a tutti.
Marie sembra godersi la meritata pace. È finito per sempre il tempo del peccato, di quello commesso o di quello sofferto. Come il Marat di David, Marie giace esangue nell'acqua, senza più tensioni da risolvere o vendette da compiere. Qui non si racconta una storia, si offre un tributo.
E come a chiudere un cerchio ecco che compare in scena uno degli Idioti, a cercare il coltello. Lì per lì sorprende, ma a pensarci bene non poteva mancare. Ormai il dado è tratto. Al personaggio Woyzeck sono cambiate tutte le prospettive. Il suo mondo non esiste più, perché se n'è andato l'oggetto del suo amore e del suo dolore, l'obiettivo del suo desiderio e della sua vendetta. Deve solo fare le cose più semplici, ma le fa stupidamente, come se non fosse già più presente. Pasticcia, torna indietro a cercare il coltello per poi gettarlo nel lago, lo recupera, lo getta di nuovo. È la sua parte più insensata ad agire, e in questo Woyzeck 3 questa parte insensata ha anche un corpo fisico: quello dell'Idiota. Non c'è scampo per il pazzo criminale, né pietà del suo corpo.
E infatti né scampo né pietà ci furono per Daniel Schmolling, Johann Christian Woyzeck e Johann Diess. I nomi loro e delle loro vittime appaiono semplicemente proiettati sulle pareti, a lettere bianche su fondo nero. Un silenzio irreale avvolge la sala. Ed è un silenzio denso, che sa di tributo alla tragedia di tutti. Anche e soprattutto gli assassini sono dei vinti.
È la fine. Quando una parete laterale si apre sull'esterno, rimani sorpreso. Non pensavi più che quella parete potesse aprirsi né, tanto meno, che esistesse un esterno. Ma rimani ancora più sorpreso di vedere uno splendido cavallo bianco impennarsi e scalpitare nel prato. A condurlo nobilmente è il Capitano, la signora che avevamo lasciato sulla sedia del barbiere e che ancora trasuda fascino e autorità. La musica subacquea dell'inizio la culla e il vento dell'oceano scompiglia il bosco alle sue spalle. Ed è proprio là che il popolo del Woyzeck 3, che si è svegliato drammaticamente in un'alba in controluce, che ha lottato, riso, festeggiato, amato, che ha emarginato i deboli ed appoggiato i forti, che si è mischiato con noi, che ci ha fatto partecipare alla sua socialità e che, infine, ha compianto le sue vittime, si disperde, diventando, da così reale, così magico. Nelle repliche notturne il bosco ha una luce rossa talmente intensa che lo fa sembrare quello delle favole.
E te, mentre ti spelli le mani, ti guardi intorno con sguardo interrogativo. Vorresti chiedere agli altri: "Ma l'avete visto anche voi?". Non ti rispondono, ma applaudono forte, qualcuno quasi piange. Vuol dire che l'hanno visto anche loro.
- Autore
- Jacopo Cecconi
- Quando
- settembre 2002