Considerazioni di un europeo sul modo cubano di partecipare ad uno spettacolo. (E, in fondo, di vivere)
Ad un europeo che giunge a Cuba fa impressione un dato: una lattina di Refresco all'arancia costa circa un dollaro. Più o meno due giorni di lavoro di un cubano. Chi è fortunato, fa un po' di economia e sa cercare i chioschi giusti, riesce a godersene una o due al mese. Così mi raccontano. Il teatro, invece, è gratis o quasi. Il cinema, l'opera, i concerti di musica. Tutto gratis, o a pochi pesos. Basta fare la fila indiana, in linea retta e si può andarci anche tutte le sere.
Da noi il cinema costa 7 euro. Vai in due, compra un pop corn e fai due conti: non è proprio invitante. È difficile immaginare un paese con i problemi economici che oggettivamente Cuba ha, investire così tanto nella cultura, nelle arti, nell'educazione. La capacità di apprezzare l'estetica in modo collettivo e senza pudori è la qualità che più mi ha colpito del popolo cubano, un popolo evidentemente abituato a considerare questo tipo di intrattenimento come un diritto garantito a tutti, al pari dell'educazione, della salute, del cibo e della casa. Da noi non è così.
La regista di teatro italiana Firenza Guidi, con cui lavoro da anni come addetto stampa e al cui seguito sono venuto sull'Isola, è in grado però di offrire proprio questo. La fruizione del suo lavoro è democratica, quello che presenta è sempre un testo aperto. Ed è per questo che i cubani hanno amato quello che fa in un modo istintivo e festoso. Insieme al suo collaboratore David Murray, la regista ha preparato il suo El Catalogo, ispirato al romanzo Tutti i Nomi dello scrittore portoghese Saramago, lavorando per due settimane a Cumanayagua, dove sono state offerte al pubblico tre performances in luoghi diversi della città. I performers che hanno partecipato al laboratorio sono una ventina: alcuni componenti del Teatro del Puerto dell'Avana, altri del Teatro de los Elementos di Cumanayagua, altri semplicemente artisti con la voglia di provare un'esperienza originale. Io sono riuscito a vedere solo la performance successiva, allestita martedì 12 ottobre alla Casa de Cultura di Cienfuegos, e poi quelle del giovedì e venerdì rispettivamente nell'università e nella Biblioteca Nazionale dell'Avana. Ogni volta lo spettacolo veniva rimontato in quattro o cinque ore e riadattato al nuovo spazio, sempre, contro ogni mia logica previsione, con risultati ottimi.
Gli spettacoli andavano in scena a metà pomeriggio, per sfruttare la luce naturale ed evitare di pregare in ginocchio che non venisse uno dei consueti black out. Firenza e il gruppo arrivavano la mattina, montavano lo spettacolo e poi, quando erano pronti, lo offrivano a chi c'era. Ed era per me incredibile che ci fosse sempre un sacco di gente. Studenti, lavoratori della stessa biblioteca, o università, o Casa de Cultura, turisti di passaggio, curiosi. Tutta gente, insomma, che spesso non aveva affatto meditato il consumo di un prodotto finito. Gente che semplicemente viveva lì, in quel momento, ed entrava naturalmente a vedere la performance, nello spazio quotidiano, senza scene, né luci, quasi senza interruzione rispetto al consueto scorrere del tempo. E poi, durante lo spettacolo, si comportava di conseguenza, invadendo, girando, domandando con gli occhi e a volte anche con la bocca, tanto che era quasi faticoso condurre il pubblico, o meglio trattenerlo. Non c'era lo schiacciamento alla parete tipico di una qualsiasi rappresentazione fatta in Europa. La gente, a Cuba, non ha paura di stare in mezzo ad uno spazio aperto, perché non ha il bisogno di sentire un involucro toccargli le spalle in modo rassicurante. Ed era eccezionale vedere come questa gente esistesse nello spazio senza pudori né reticenze, come Firenza chiede del resto ai suoi performer. La bellezza e particolarità degli spettacoli cubani, per uno che come me ha seguito la regista in molti anni e luoghi, è stata proprio in questa relazione del pubblico con la fruizione dell'evento, vissuto come parte di un flusso, senza la pretesa di una struttura finita che andasse da A a Z.
Gli spettacoli di Firenza Guidi richiedono esattamente questo dal pubblico. Partecipazione. Capacità di lasciarsi coinvolgere, di vivere lo spazio insieme ai performers senza timori o mugugni, senza il cinico distacco, anche fisico, con cui molti, in altre società, vivono un evento.
È fin troppo comune, da noi, vedere gente che guarda uno spettacolo quasi con il biglietto d'ingresso in mano, brandendolo come un contratto firmato all'ingresso. Io ho pagato dieci euro, voglio dieci euro di divertimento. Voglio almeno tre euro di commozione, quattro di risate e altri tre di trama e messaggio. E li voglio in un lasso preciso di tempo e spazio, qui e ora, dalla porta d'entrata a quella d'uscita, dalle 9 alle 11. Cuba, per come l'ho vista io, non è così. Cuba non ha inizio e non ha fine, non ha contratti, non ha privato. Fondamentalmente, non ha involucri.
L'europeo che atterra all'Avana nota subito che le strade sono sempre pulitissime. Incredibile! Efficienza della nettezza urbana? Ma se non c'è nemmeno un cestino! Educazione teutonica? Ma se siamo ai Caraibi! La spiegazione è più diretta: semplicemente non c'è niente da buttare via. Perché non ci sono involucri usa e getta, non c'è confezione. Per noi questo è incredibile. A Cuba si riusa tutto. Il consumo non è vissuto come un evento, ma come un flusso. Non consumo il pacco di riso, come accade da noi. Ho solo un contenitore aperto da cui il riso esce per poi rientrare in un flusso continuo. E anche la vita è così. È collettiva, è partecipativa, è senza etichetta o involucro. Sarà la latitudine, sarà il socialismo, sarà la povertà. Esistono i sociologi per stabilire questo. Io ho notato solo che è così. A noi visitatori può piacere o non piacere, ma è la vita a Cuba: collettiva, partecipativa, senza etichetta o involucro. Guarda un po', esattamente come gli spettacoli di Firenza. Non poteva che essere amore a prima vista.
- Quando
- 2004
- Autore
- Jacopo Cecconi