Il Teatro della Seduzione 1999-2001
Dopo i cicli di ricerca sul Desiderio e la Memoria come veicoli formativi ed espressivi, si apre un nuovo capitolo intitolato Il Teatro della Seduzione. L'attenzione si volge, in primo luogo, allo studio del Tragico Contemporaneo come linguaggio di Seduzione, come meccanismo di (auto)conoscenza, di creazione e identificazione di una coscienza collettiva. Il lavoro è un percorso parallelo di formazione e di produzione.
In questo percorso frammentario, disgiunto, precario, il teatro diventa lo spazio in cui individuo e collettività si mettono a confronto.
Perché ció accada, perché il teatro possa andare al di là dell'atto antropófago di consumo, è necessario che il performer si interroghi veramente, che si sporchi le mani, si invischi in prima persona nel languore, nel ricordo, nel riso. In primo piano è il corpo: senza sentimentalismi, senza birignai, senza mimica. Perché ció accada, il performer-creatore deve disimparare ció che è dato per scontato, verificare sulla propria pelle e cercare prima di tutto in se stesso i meccanismi del comico e il senso del tragico, lo spazio vuoto del desiderio e quello affollato della memoria. L'atto di farsi portavoce del riso, della rabbia, delle paure e fobie di una collettività: è uno scambio epidermico, un passaggio sanguigno tra spettatore e attante. Una seduzione.
Ma la collettività, da chi è composta? Di chi e per chi è il teatro nel 1999? Saper prendere coscienza e valorizzare una sempre maggiore eterogeneità sociale, un crescente multi-culturalismo è una urgenza dell'artista in continuo flusso col reale. Investire nei giovani, nella comunità, nella scuola, nelle nuove realtà e presenze etniche, vuol dire investire nell'individuo, nel cittadino e nel pubblico presente e futuro. Il lavoro che viene svolto incoraggia e spesso catalizza la stima, il rispetto per se stessi e per gli altri, la fiducia nelle proprie capacità: questo tipo di formazione non è (solo) vocazionale, non funge (solo) da attrezzi da lavoro. Non serve solo a chi pensa, vuole, o sogna di fare teatro. Serve a tutti: se è vero che solo pochi diventeranno attori, è anche vero che tutti si troveranno ad essere, prima o poi, spettatori e/o attanti. Gli effetti di questo investimento sono profondi, duraturi; hanno spesso una forza aggregante, catalizzante, e per alcuni, anche un potere catartico.
Il programma di lavoro è dunque inteso come piattaforma, forum e punto d'incontro di realtà diverse. Se il futuro prevede (ovunque, non solo in Italia) migrazione, convivenza, integrazione e messa in rete di culture, è necessario trovare uno spazio che unisca senza però abolire diversità culturali. In questo programma, la performance diventa la cornice, l'avventura, il luogo della seduzione, il laboratorio in cui affronatare le spaccature e contraddizioni del sociale: il punto di partenza e il punto d'incontro. Contenuto e forma assumono lo stesso potere narrativo; la materia, a un tempo particolare e universale. Lettura e significato, come nella poesia e nelle arti visive, multipli.
L'altro aspetto del percorso è quello della produzione, di creazione dell'evento, di fucina, di impasto estetico all'interno di una figura intesa qui come struttura polivalente. Le creazioni previste in questo programma di lavoro rimangono legate alla ricerca espressiva della performance (più che del teatro), a un modo di raccontare e di presentare, ben diverso dal tipo di teatro rappresentativo e descrittivo lasciato dall'ipoteca naturalistica. Ill tipo di drammaturgia performativa, diventato ormai il marchio internazionale di Firenza Guidi e della compagnia ELAN, fonde, all'interno del tessuto narrativo testo e suono, corpo e immagine filmica, movimento e gestualità, musica e arti visive. In questa visione non si rappresenta, non si copia, non si fa il mimo o il verso alla vita. Non propone sintesi. Lo spazio della performance è uno spazio dialettico e di ricerca in cui performers e visione artistica vengono presentati nell'atto stesso di prodursi.
Allora ecco che in questo lavoro si interviene, si frammenta, si scolpisce, si esplode, si problematizza, si aprono degli interrogativi, si offre una struttura aperta si fa lavorare il pubblico. Il rapporto tra spettatore/consumatore e spettacolo/prodotto deve essere ogni volta re-inventato attraverso performances che geograficamente e fisicamente problematizzano il rapporto attore-pubblico cristallizzato dal teatro di proscenio e dal naturalismo. Per fare questo il teatro deve uscire dal Teatro. Deve impolverarsi, scendere nelle arene, entrare negli anfratti, nelle pieghe urbane, negli spazi storici e venerati e in quelli decrepiti, in disuso, abbandonati e tenuti a distanza come simboli di declino o addirittura degrado. È un teatro in esilio, vagabondo, extra-comunitario, pellegrino, straniero, emigrante, un po' parassita un po' agitatore con una percezione della propria identità fluida che cambia umore a seconda dello sguardo in cui si specchia, a seconda dell'interlocutore, del luogo della temperatura. A seconda della fame. È un teatro che entra nelle case, fa rumore, si attacca ai balconi e alle finestre: un teatro che può sedurre e affascinare anche se non si comprende immediatamente. Un teatro che non si dà totalmente, che non si offre come specchio della realtà, che non racconta tutto, ma mantiene, anche povero, la propria integrità e i propri segreti.